Rezension über:

Boris Dreyer: Polybios. Leben und Werk im Banne Roms (= Studienbücher Antike; Bd. 4), Hildesheim: Olms 2011, 194 S., ISBN 978-3-487-14717-8, EUR 18,00
Inhaltsverzeichnis dieses Buches
Buch im KVK suchen

Rezension von:
Giuseppe Zecchini
Dipartimento di Scienze Storiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Redaktionelle Betreuung:
Matthias Haake
Empfohlene Zitierweise:
Giuseppe Zecchini: Rezension von: Boris Dreyer: Polybios. Leben und Werk im Banne Roms, Hildesheim: Olms 2011, in: sehepunkte 12 (2012), Nr. 6 [15.06.2012], URL: https://www.sehepunkte.de
/2012/06/20785.html


Bitte geben Sie beim Zitieren dieser Rezension die exakte URL und das Datum Ihres Besuchs dieser Online-Adresse an.

Boris Dreyer: Polybios

Textgröße: A A A

Quasi in contemporanea sono uscite due sintesi sulla personalità di Polibio, quella inglese di D. Baronowski (Polybius and Roman Imperialism, London 2011) e questa di B. Dreyer. Il volume è articolato in otto capitoli, il I dedicato alla vita (7-22), il II alle opere minori (23-28), il III alle Storie, allo stato della loro ricezione, al loro contenuto, libro per libro, alla genesi dell'opera (29-68), il IV alla concezione della storia di Polibio, al suo metodo storico e alle sue fonti (69-120), il V al rapporto tra i principi teorici affermati da Polibio e i suoi atteggiamenti nel corso dell'opera, se coerenti oppure no con tali principi (121-133), il VI allo stile (134-137), il VII alla fortuna postuma, antica e moderna, delle Storie (138-150), l'VIII alla Bibliografia, soprattutto a quella più recente, dopo il 1970 (151-169).

Riguardo alla cronologia di Polibio Dreyer si attiene con giusta prudenza a quella tradizionale, che ne pone la nascita alla fine del III secolo, contro i tentativi di M. Dubuisson (REG 1980, 72-82) di spostarla più in alto.

Il rapporto di Livio con Polibio è di subordinazione: se i due divergono, Polibio è da preferire (36); questa conclusione è, a mio avviso, unilaterale: ci sono casi, in cui l'uso di tradizioni gentilizie non cornelie permette a Livio di correggere il filoscipionico Polibio, come si rileva a proposito delle campagne di Scipione in Spagna (cfr. G. Zecchini, Scipione in Spagna: un approccio critico alla tradizione polibiano-liviana, in G. Urso (ed.) 'Hispania terris omnibus felicior', Pisa 2002, 87-103).

Il ruolo della storia passata della Grecia in Polibio non dipende solo dal fatto che essa era già conosciuta dai suoi lettori greci (39): la posizione evidentemente antiateniese e filomacedonica dello storico (così giustamente a 70-71) deriva dalla sua limitata prospettiva di Lokalhistoriker acaico (cfr. G.Zecchini, Polibio e la storia non contemporanea, in P. Desideri et alii (edd.), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica, Alessandria 2007, 123-133).

L'analisi del VI libro (40-50) parte dal concetto allargato di politeia, non solo 'costituzione', ma 'insieme di usi e costumi', per riconoscere l'influenza di Catone già in questa prima fase della riflessione politologica di Polibio, come si ribadisce anche in seguito (102): ammetto di avere qualche esitazione nell'accettare questo risultato, ma forse qui Dreyer ha ragione; in ogni caso al medesimo esito è giunto anche J. Thornton, La costituzione mista in Polibio, in D. Felice (ed.), Governo misto. Ricostruzione di un'idea, Napoli 2011, 67-118.

Più cursoria è l'analisi del XXXIV libro (52-53), dove mi pare che Dreyer sottovaluti l'orgogliosa volontà di Polibio di presentarsi come l'unico erede di Omero nella scoperta dell'Occidente (Spagna e Africa sino oltre le Colonne d'Eracle) e quindi di denigrare ogni autore intermedio, Pitea in particolare.

Il complesso dei libri XXXI-XXXIX, cioè la seconda parte delle Storie, manca ancora di una trattazione complessiva, come Dreyer osserva acutamente (65); è vero che qui Polibio individua il problema dei rapporti tra i popoli conquistati e la potenza egemone, ma va, a mio avviso, sottolineato che al suo interno egli rivendica ai Greci un ruolo privilegiato, diverso da quello dei barbari d'Occidente e su questo punto non ottenne mai il consenso della classe dirigente romana: per lui il Wendepunkt dell'egemonia romana è la caduta di Cartagine e di Corinto, per i Romani è la caduta di Cartagine e di Numanzia (cfr. G.Zecchini, Polibio tra Corinto e Numanzia, in J. Santos Yanguas / E. Torregaray (edd.), Revisiones de Historia Antigua. IV: Polibio y la peninsula ibérica, Vitoria-Gasteiz 2003, 33-42).

Da segnalare tra le pagine migliori del volume sono quelle sul ruolo dei discorsi nelle Storie (72-73), sullo psicologismo storico di Polibio (74-83) e sul valore della religione e della tyche (83-89): la ferma affermazione di Dreyer che 'Polybios ist zu aufgeklärt, um das göttliche Element als wirkungsmächtig zu erachten' è pienamente condivisibile; avrei aggiunto che proprio questo gli impedisce di comprendere il senso profondo della religione romana, non utilitaristica deisidaimonia, ma sistema di valori pubblico e quindi fondante per l'intera comunità.

All'interno del rapporto tra Polibio e le sue fonti il tucididismo dello storico è ben delineato (95-97); inoltre efficaci sono le pagine sulle fonti di corte, soprattutto macedoni, a cui Polibio può attingere, e infine quelle sull'impiego delle fonti documentarie e sulle conferme, che le fonti documentarie a noi note portano alla ricostruzione storica polibiana (103-120).

Infine Dreyer scrive che nelle sue polemiche contro Timeo, Teopompo, Filarco e altri storici anteriori, che riguardano anche la 'forma' dell'opera storica, Polibio potrebbe aver tenuto conto della nota critica alla storiografia contenuta nella Poetica di Aristotele (129: 'vielleicht in Anspielung auf die Ausführungen des Aristoteles'); qui io sostituirei 'vielleicht' con 'ohne weiteres', ma resta in ogni caso significativo che si riconosca la necessità almeno di approfondire l'influenza del filosofo di Stagira su Polibio.

Non mi soffermo sulle rapide annotazioni dedicate al Nachleben di Polibio, perché la lacuna segnalata in tal senso da Walbank è ancora da riempire e Dreyer ne prende atto (138): un mio studio sul tema è ancora inedito. Segnalo però a proposito della bibliografia (149) che, dopo le traduzioni italiane di C. Schick e A. Vimercati, è stata pubblicata a Milano tra il 2001 e il 2006 una nuova versione in 8 volumi delle Storie con testo a fronte e note (abbastanza importanti) a cura di D. Musti, J. Thornton e M. Mari.

Concludo: la forma linguistica e lo svolgimento del pensiero di Dreyer non sono sempre chiari; talvolta egli torna in sedi diverse sullo stesso tema, ingenerando inutili ripetizioni: così per i rapporti tra Polibio e Catone, per i rapporti tra Polibio e Livio, per l'atteggiamento di Polibio verso il passato della Grecia; si tratta tuttavia di difetti minori, così come le occasioni di dissenso sopra manifestate riguardano sempre questioni aperte della ricerca polibiana e non possono mutare il giudizio finale sul volume. Il quadro complessivo, che ci viene fornito, è equilibrato e completo: come Einleitung a Polibio e dunque come strumento di lavoro iniziale per ulteriori studi sullo storico di Megalopoli il volume assolve certamente la sua funzione in modo più che soddisfacente.

Giuseppe Zecchini