J. Nicholas Napoli: The Ethics of Ornament in Early Modern Naples. Fashioning the Certosa di San Martino (= Visual Culture in Early Modernity), Aldershot: Ashgate 2015, XVI + 413 S., ISBN 978-1-4724-1963-7, GBP 65,00
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Nel 1867 la certosa di San Martino a Napoli viene dichiarata monumento nazionale, ricevendo così il riconoscimento ufficiale della sua importanza come centro primario per la storia artistica napoletana. Il libro di John Nicholas Napoli ripercorre la ricchissima storia dell'edificio, concentrandosi sul periodo compreso tra la fine del XVI e la prima metà del XVIII secolo: una fase molto densa, che l'autore analizza dettagliatamente, non solo dal punto di vista architettonico e artistico, ma anche prendendo in considerazione il più ampio contesto culturale ed economico del Regno di Napoli sotto la dominazione borbonica.
Dopo il seminale studio di Anthony Blunt del 1975, dedicato all'architettura barocca e rococò [1], l'interesse degli studiosi anglosassoni per l'architettura napoletana si era sopito fino al 2004, quando Caroline Bruzelius pubblicò una altrettanto fondamentale ricerca sull'architettura angioina. [2] Ora l'attenzione della letteratura anglosassone per l'architettura di Napoli sembra finalmente risvegliata.
Dal 1582, ovvero circa 250 anni dopo la fondazione della certosa, il priore Severo Turboli promuove una consistente campagna di lavori che, impiegando artisti prevalentemente romani e toscani (Cavalier d'Arpino, Giovanni Baglione, Giovanni Antonio Dosio), determina un generale "ridisegno" dell'edificio. Tra il 1618 e il 1656 la certosa diviene poi una vera e propria officina artistica (o "industria", per usare un'espressione impiegata da Jennifer Montagu [3], a cui John Nicholas Napoli si riferisce) dove operano i migliori artisti presenti a Napoli in quegli anni (Cosimo Fanzago, Battistello Caracciolo, Jusepe de Ribera, Massimo Stanzione, Giovanni Lanfranco). Solo intorno alla metà del Settecento il complesso viene completato con le opere di Domenico Antonio Vaccaro, Luca Giordano e Francesco Solimena.
Raccontando questa lunga storia (efficacemente riassunta in una tabella in appendice), l'autore mette in luce sia la qualità artistica delle opere, sia il ruolo della committenza. I monaci, infatti, concepiscono la certosa come espressione dell'identità e degli ideali del loro ordine, affrontando un paradosso apparentemente irrisolvibile: come conciliare l'umiltà e la povertà certosina con lo sfarzo delle decorazioni? E come adattare tale compromesso al mutevole contesto storico in cui la Chiesa si trova ad operare, dal tardo Medioevo, alla Controriforma, fino alle soglie dell'Illuminismo? È proprio questo lungo e articolato processo di reciproco "adattamento" tra il sistema religioso, politico ed economico della società napoletana e il sistema decorativo straordinariamente coerente della certosa che l'autore definisce "etica dell'ornamento". L'ornamento è caratterizzato da una coerenza che riguarda non solo le opere realizzate da diversi artisti contemporaneamente presenti in cantiere, ma che investe anche il lavoro di quelli appartenenti a generazioni successive.
Arroccata sulle pendici del Vomero e vicina a Castel Sant'Elmo, la certosa è una sorta di bastione spirituale e la sua posizione, esterna ma ben visibile, simboleggia l'alleanza tra clero e potere politico. Quest'ultimo, nella figura di Carlo d'Angiò duca di Calabria, considera la fondazione della certosa (1326) come un gesto di magnificenza e di virtù sociale, nell'ambito di un più ampio programma di mecenatismo reale. Ma la campagna intrapresa a fine Cinquecento dal priore Turboli, personaggio aggiornato sulle indicazioni di Carlo Borromeo e sull'architettura romana e milanese, ridimensiona il ruolo della committenza privata e afferma l'importanza dell'Eucarestia, connotando la chiesa come rappresentazione del Paradiso in terra. Grazie ai lavori effettuati da Giovanni Antonio Dosio e concentrati soprattutto nella sacrestia, nel coro e nelle cappelle laterali aperte sui fianchi dell'edificio, il parallelismo con la Gerusalemme celeste viene rafforzato dall'uso del rivestimento marmoreo policromo, che trasforma la chiesa in un magnifico tabernacolo e richiama pratiche decorative antiche.
La parte più interessante del libro riguarda il contributo di Cosimo Fanzago e della sua "impresa". Insieme ai nuovi studi di Paola D'Agostino su Fanzago scultore e decoratore [4], questo libro delinea ora in maniera più precisa e approfondita la figura di un artista centrale per il barocco napoletano, anche grazie all'appendice di documenti in parte inediti (si sarebbe potuta forse cogliere l'occasione per riproporre anche quelli pubblicati parzialmente, tra gli altri, da Gaetana Cantone e citati qui nelle note [5], fornendo così un quadro completo sulla presenza di Fanzago a San Martino).
Inquadrando il pluridecennale impegno di Fanzago alla certosa nella questione della natura dei contratti artistici, basati principalmente sul concetto di fede (o fiducia) tra committente ed esecutore, John Nicholas Napoli evidenzia l'importanza dei monaci certosini nel sistema artistico napoletano, ma mostra anche le numerose difficoltà che potevano sorgere in questo tipo di rapporti tra artista e committente, spesso sfocianti in lunghissime cause legali giocate a colpi di perizie, stime e contro-stime dei lavori svolti. Ciò che emerge dall'analisi dei contratti è la loro natura progressivamente più "fluida": se all'inizio le condizioni imposte dai certosini sono molto dettagliate, nel corso degli anni Fanzago - che prima si occupa del chiostro grande, ma poi realizza diversi interventi in tutto il complesso - conquista sempre maggiore autonomia. Le diverse perizie raccolte in occasione dei processi, inoltre, ci aiutano a comprendere il metodo di lavoro di Fanzago e dei suoi collaboratori, ai quali viene concessa ampia libertà di deroga dai modelli. L'abitudine a realizzare una sovrabbondanza di elementi scultorei e architettonici consente a Fanzago di modificare il progetto iniziale, creando nuove composizioni con pezzi provenienti anche da altri suoi cantieri. Questa pratica di "improvvisazione", unita alla gestione un po' troppo disinvolta dei materiali da costruzione (spesso costosi marmi), è un aspetto che preoccupa non poco i certosini.
Il volume è corredato da un significativo apparato iconografico, una corposa bibliografia e un indice dei nomi. Sebbene con alcune digressioni e con qualche riferimento ad esempi forse scontati, il libro offre un importante contributo alla conoscenza della realtà artistica napoletana, vista in un ampio contesto socio-economico e culturale, e consente di compiere un passo avanti negli studi di uno dei monumenti più affascinanti di Napoli barocca.
Note:
[1] Anthony Blunt: Neapolitan Baroque and Rococo Architecture, London 1975. È ora disponibile anche una traduzione italiana, con importanti aggiornamenti: Anthony Blunt: Architettura barocca e rococò a Napoli, a cura di Fulvio Lenzo, Milano 2006.
[2] Caroline Bruzelius: The Stones of Naples: Church Builiding in Angevin Italy 1266-1343, New Haven / London 2004.
[3] Jennifer Montagu: Roman Baroque Sculpture: The Industry of Art, New Haven 1989.
[4] Paola D'Agostino: Cosimo Fanzago scultore, Napoli 2011.
[5] Gaetana Cantone: Napoli Barocca e Cosimo Fanzago, Napoli 1984.
Alessandro Brodini